La "Pax Italiana" passa a Nordovest
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- Pubblicato Martedì, 15 Maggio 2012 08:30
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SHINDAND (HERAT) – Il capo di tutti i villaggi della zona di Shawz, tra la base avanzata di Shindand e la Zeerko Valley, a più di 100 chilometri da Herat, incontra da giorni la delegazione italiana del Regional Command West.
Aka Fasul Ahmad e il capitano Luca Bordoni prendono il tè per l’ennesima shura vicino ad un ceck point della polizia afgana. Le parole ricorrenti sono sicurezza, lavoro, infrastrutture, istruzione, accompagnate da cenni del capo e promesse reciproche di collaborazione.
Qui si arriva attraverso l’unica autostrada afgana, la Highway Road One: un percorso nel deserto di pietre e sabbia, poche casupole ai margini della strada, un solo villaggio più grande con un mercato, Aziz Abad, un solo distributore di benzina. Aka Fasul Ahmad ha chiesto un pozzo e i lavori hanno avuto il via due settimane fa, dopo l’accordo con le ditte locali e l’assunzione dei lavoratori del villaggio. Adesso ribadisce: «Gli italiani ci devono aiutare: abbiamo bisogno di sicurezza per noi e per la polizia afgana contro gli insorgenti che non vorrebbero stessimo a fianco del governo e delle Forze di coalizione. Ditelo al vostro presidente del Consiglio: i vostri soldati devono restare qui ».
La richiesta di questo elder afgano suonerebbe fuori contesto, se non fosse che ciò che accade in questo Paese incide da trent’anni sulla storia degli equilibri internazionali. Mentre la Nato, dopo la riunione dei ministri della Difesa dell’Alleanza Atlantica a Bruxelles, il 10 giugno scorso, sta valutando come dare seguito alla exit strategy annunciata da Obama, e fa i conti con un deficit di 640 milioni di dollari, i militari dell’Isaf si trovano tutti i giorni a combattere con gli Ied (Improvised Esplosive Disposal), le bombe fatte in casa dagli “insorti”, con materiali di fortuna come fertilizzante e gasolio, e poi nascoste sotto la strada, attivate a distanza, o da un piatto a pressione.
Le ultime sono esplose proprio a Shindand, una nel deserto all’ingresso della Zeerko Valley, a 12 chilometri dalla base italiana: per i cinque alpini sul blindato Lince ci sono state solo ferite leggere. L’altra è stata trovata sulla Highway One, sul ciglio della strada, dentro a un tombino in cemento per la canalizzazione dell’acqua. «Siamo stati allertati dalla polizia locale, – racconta il tenente del 32esimo reggimento genio guastatori Stefano Zonzin –. Era un ordigno con 50kg di esplosivo di media potenza, forse radiocomandato. Se fosse scoppiato avrebbe avuto un effetto cannone sulle condutture dell’acqua». Questa, a Shindand, e in tutto il settore Ovest del Paese, è normale amministrazione.
Dal 20 maggio a oggi sono 42 gli Ied rivenuti vicino alle basi italiane: 12 a Bala Murghab, 4 a Shindand, 26 a Sud, nella zona di Farah. E a questo conteggio vanno aggiunti anche gli incidenti durante i pattugliamenti, come quello che ha portato alla morte del caporal maggiore Francesco Saverio Positano.
Il colonnello Giulio Lucia comanda la Task Force Center di Shindand: «La nostra area di competenza, passando per la valle di Pharsi, si estende fino alla Zeerko Valley, una zona che fino a un anno fa era considerata off limits per noi, perché terra di insorti. Le minacce per popolazioni e polizia afgana locale vengono soprattutto da qui».
La Zeerko Valley, in un territorio che, da Shindand in giù, conta più di 269mila abitanti, di cui il 75% di etnia pashtun, il 15% tagika e il restante 10% turkmena e kucha, è il regno di due tribù, i Nurzai e gli Achakzai, che hanno interessi locali comuni nella coltivazione dell’oppio ma interessi politici opposti.
«Anche nella valle di Pharsi – rivela il comandante Lucia – assistiamo agli assalti da parte di insorgenti a interi villaggi». È il caso della piccola realtà di Chahak, 250 anime e qualche capra in più su una strada sterrata denominata Teitan. Cher Ahmad, il capovillaggio, chiede assistenza per greggi e bambini, si dichiara “antitalebano e democratico”, denuncia episodi di violenza e furti nella notte. «Nel villaggio di Nagal, che si trova oltre un passo di montagna visibile a occhio nudo – il comandante Lucia ci indica la località –, sono state segnalate presenze di uomini armati di notte».
Ma la trincea vera, in Afghanistan, è a Bala Murghab, Nord-Ovest, 230 chilometri da Herat, dove un mese fa sono morti il sergente maggiore Massimiliano Ramadù e il primo caporal maggiore Luigi Pascazio. La zona è di massimo interesse per Isaf che desidera allargare il controllo per arrivare a completare la Ring Road, una strada asfaltata a scorrimento veloce che dovrà collegare tutte le più importanti città afgane, formando un anello di viabilità. Il passaggio attraverso i villaggi è più difficile che altrove: la presenza dei soldati è salutata con una muta indifferenza e non si scende dai blindati.
La base avanzata è un avamposto di sabbia e sacchi, temperature altissime, con una media di 47 gradi all’ombra. Qui si smina, si pattuglia, si scavano trincee con pala e piccone, si risponde al fuoco nemico. Il colonnello Massimo Biagini, che comanda il secondo reggimento alpini di Cuneo, ci porta sul caposaldo “Cavour”: «Siamo ancora in una fase di “pulizia”. Abbiamo costruito dei capisaldi, insieme alle forze afgane e americane, e da lì rispondiamo al fuoco degli insorti, cercando di allargarci a Nord».
Questa è una zona di resistenza, dove la vicinanza con l’Iran accende l’interesse dei gruppi antigovernativi. La vita di trincea è spartana ma il caporal maggiore scelto Mirella Labriola, che comanda la sua squadra al Cavour, ci confessa: «Ciò che rende veramente difficile il nostro lavoro qui è l’imprevedibilità».
Dal 20 maggio ad oggi, quasi tutti gli episodi di attacchi con armi leggere e pesanti nel settore Ovest si sono verificati in questa zona, dove si può arrivare solo in elicottero. In tutto, gli attacchi sono stati 37 in meno di un mese e a 15 è stato risposto con i mortai. Ma in questi giorni è stata osservata una tregua da ambo le parti: a Bala-Murghab si raccoglie il grano e tutto tace.
Avvenire 11-06-11
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- Pubblicato Domenica, 13 Maggio 2012 13:55
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Cristiani
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- Pubblicato Domenica, 13 Maggio 2012 13:33
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Idelfonse staziona fuori dalla Chiesa di San Francesco alla Dahra. È l’unico africano cristiano che accetta di parlare, la domenica mattina, prima della messa. Qui, nella Libia post-Gheddafi non si sbottonano in tanti, specie quando dall’altra parte del Mediterraneo arrivano notizie inquietanti sugli effetti della guerra verso i sub-sahariani. “Non so cosa vi vanno raccontando, ma per chi vive a Tripoli e lavora onestamente oggi è molto meglio di prima”. Idelfonse ha 51 anni. È emigrato dal Ruanda in guerra 20 anni fa. Ha quattro figli e uno è con lui, stamattina. “Lavoro da anni nel settore dell’energia. In Libia non mi sono mai trovato male e nessuno mi ha dato fastidio perché sono cristiano o di pelle nera. Di sicuro le persone si sentono più libere, adesso. Per me, comunque, l’importante è non perdere il lavoro”. Nathaniel, pakistano, si avvicina e annuisce. Cristiano anche lui ma protestante, fa il gioielliere. La moglie lavora in ospedale come infermiera. “Finora a Tripoli ho vissuto bene: da oggi in poi si vedrà ma per gli stranieri asiatici non penso ci saranno problemi”. Nathaniel, come altri protestanti, passa spesso dalla Chiesa di San Francesco, l’unica della capitale aperta al culto cattolico. “Il vescovo è un buon punto di riferimento per tutti”. Dentro, il vicario apostolico Giovanni Martinelli benedice chi gli si avvicina.
“Anche a me pare proprio che accada il contrario. Sugli africani, non c’è più il razzismo e l’accanimento dei tempi di Gheddafi che li strumentalizzava. Bisognerebbe comunque insistere per cancellare dall’immaginario collettivo l’equazione africano/mercenario e il nuovo governo dovrà adoprarsi con tutte le forze”. Questa rivoluzione, almeno qui a Tripoli, è stata un travaglio. Mica facile liberarsi del fantasma di Gheddafi dopo 40 anni di radicamento nel sistema, secondo Martinelli. “E c’era chi ci stava bene, anche materialmente”, dice.
Posto che il vescovo continua a condannare i bombardamenti già avvenuti, gli sembra che “questo liberarsi di Gheddafi sia equivalso a scrollarsi di dosso qualcosa che dà fastidio alla psicologia del libico”. Cosa? “Pregiudizi, realtà diseguali, modi di fare arroganti”. Come quelle che, dopo anni di silenzio, il quarantenne Mubaker, di passaggio nell’ufficio del vescovo, racconta: “Gheddafi non era un libico, era un uomo malato. Ma vi sembra giusto che in tutti questi anni di dittatura, se denunciavi una disfunzione in una struttura di servizio, come un ospedale, rischiavi di finire in prigione?” Però, il vescovo sostiene che se c’era una cosa buona, era questa: “Gheddafi, intorno alla fierezza beduina, è stato in grado di creare coesione sociale e ammirazione in altri Paesi musulmani, e nell’Unione africana. Ha lasciato un potere morale che ha trascinato e ha attirato tanti”. E il pericolo fondamentalista non c’è? In un Paese in cui i cattolici sono appena 50mila, quasi tutti stranieri, dove ci sono solo 13 sacerdoti e 70 religiose, pochi centri di assistenza sanitaria (14) e di culto, e dove non esiste una comunità cristiana indigena, “il dichiararsi musulmano, è un fattore di orgoglio identitario”, dice Martinelli. Che sottolinea: “Non c’è alcun pericolo per i cristiani, basta porsi sul piano dell’amicizia personale. Quel che cementa gli animi, in Libia, è il sentirsi parte di un clan, di una famiglia. Il che equivale alla condivisione di valori umani: il rispetto, la sincerità. Anche un cristiano può esser accettato in casa e nel cuore di un libico musulmano. Se lo è, nessuno baderà alla sua appartenenza religiosa. Se può servire dirlo, è capitato anche a me”.
il CNT
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- Pubblicato Domenica, 13 Maggio 2012 13:51
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Per una nuova “Libia libera” (questo lo slogan del Cnt) si prepara un percorso a tappe, che il governo provvisorio dei ribelli finora guidati da Mahmoud Jibril spera non sia ad ostacoli. Secondo la road map già annunciata nell’agosto scorso, l’obiettivo sono elezioni parlamentari e presidenziali entro 20 mesi, nel 2013. Per 8 mesi il Cnt guiderà la transizione, in attesa che un’assemblea eletta dal popolo prenda il comando del Paese per redigere una Costituzione. Poi, nel giro di un anno, saranno organizzate le elezioni. Per i primi quattro anni non si candideranno i membri dello stesso Cnt, almeno secondo quanto annunciato poco tempo fa a Parigi da Mahmud Shamman, responsabile per l’informazione.
Al-majlis al-watani al-intiqali (questo il nome del National Transitional Council, il consiglio di transizione nazionale libico, cioè il governo de facto della nuova Libia), è nato il 27 febbraio scorso a Bengasi e dal 5 marzo 2011 si è autodichiarato “l’unica organizzazione legittimata a rappresentare il popolo e lo Stato libico”. L’esecutivo, guidato da Mahmoud Jibril, è stato formato il 23 marzo e rimpastato il 23 ottobre, data in cui il presidente ad interim Mustafa Abdul Jalil (già ministro della giustizia in era Gheddafi) ha dichiarato la fine della guerra civile. Jibril, già confermato primo ministro, si è dimesso e dal 31 ottobre gli è succeduto il professore di ingegneria elettrica con passaporto statunitense Abdurrahim El-Keib. Ali Tharhouni è vice-primo ministro, Jalal al-Digheily ministro della Difesa. I 33 membri del governo provvisorio nella fase iniziale, sono passati a 51 ma è stato proposto un aumento dei “parlamentari” fino a 75 o 125. Dei 51, fino a settembre si conoscevano i nomi solo di 40 persone. Tre membri del consiglio sono donne, tra cui la giurista bengasina Salwa Fawzi El-Deghali. Intanto, la nuova Libia rimane sotto il controllo della Nato, a cui il Cnt ha chiesto il prolungamento della missione “Unified Protector”.
Munir Bashir, un film omaggio ai cristiani iracheni
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- Pubblicato Giovedì, 19 Aprile 2012 10:06
- Scritto da Super User
Nove anni fa, il 9 aprile 2003 le truppe americane invadevano l’Iraq. Questo post vuol ricordare cos’è successo da allora alla comunità cristiana irachena. Chi ha mai visto Munir Bashir? Chi sa che l’Iraq nel Novecento ha espresso un talento musicale assoluto che ha rinnovato la musica orientale avvicinandola all’Occidente? E, ancora, quanti sanno che Munir Bashir, il più grande compositore ed esecutore di oud (il liuto orientale) era cristiano? Pochi. Tanto pochi che il regista Laith Mushtaq, già cameraman di guerra di Al Jazeera, per sfatare la convinzione della maggioranza che associa l’Iraq solo ai conflitti del Golfo e non all’astrolabio, alla ruota, alla scrittura cuneiforme e alla culla di Abramo, ha deciso di farci un film.