Fuck you, benvenuto a Baghdad

 

Bambini a BaghdadEro assolutamente certa che avremmo fatto amicizia. Ma non in quel modo tanto strambo. Un modo che ti fa pensare quanto le parole abbiano una storia, siano portatrici di odio o di speranza, di incomprensioni e azioni. Per poi avere un esito imprevedibile, nel bene o nel male.


Taher sta in piedi a guardare gli altri giocare. Periferia di Baghdad. La moschea di Kadhimiya è sullo sfondo; la strada non è asfaltata, i compagni vestono tutti le magliette del Real Madrid e del Chelsea, una sola è del Milan, ma tutti pestano il pallone che è un piacere. Il pallone vola lontano. Taher vorrebbe prenderlo ma non lo può raggiungere: ha un piede conciato per bene, meglio non calciare troppo.

Poi però arriva la reporter occidentale e allora si prende la rivincita. Mentre lei sta scattando con il teleobiettivo la disposizione strategica dei compagni di calcio, lui attira la sua attenzione con uno “Jalla", vieni.


E appena ti ha davanti, in tono allegro e confidenziale, ti dice “Fuck you”. Sì, proprio così, “Fuck you": vaffanculo. E te lo dice con amore, con gioia. Con onore. Con compiacimento. E’ un benvenuto piantato sopra la sua gamba di plastica che ha sostituito quella vera, fatta di carne, muscolo, cartilagine, ossa, slancio, calcio, traiettoria, tiro, goal.


Tu sorridi all’inizio divertita, poi ti chiedi se intorno sia nascosto un adulto o se, sooner or later, quella marmaglia farà la tua Canon a pezzi. Invece no, tutti ridono rilassati e il ragazzo ripete “Fuck you” come fosse un benvenuto. E gli altri pure dicono “fuck you”. Chissà se mentono, se sanno cosa significa, se si lasciano sopraffare dalla scimmia che alberga in noi e che vien fuori solo quando siamo in compagnia e non riusciamo più a smettere di ridere per delle stupidaggini.


E mentre tutti abbandonano la partita improvvisata per farsi fotografare, mettersi in posa, sciamare davanti all’obiettivo, e uno di loro inizia ad apostrofare il compagno per il fatto di essere così ignorante da non sapere cosa significhi “Fuck you”, dopo dieci anni di occupazione americana, io mi domando chissà, quando e da chi Taher abbia sentito e imparato quelle parole.


Ho immaginato un soldato americano, un giovane di vent’anni che piantona lo stesso posto per mesi. Uno che non vede l’ora di andar via da questo fottutissimo Paese. Uno che mette il prefisso fuck a qualsiasi cosa, come un contractor che ho conosciuto, per il quale, da fuckin’-mother a fucking-bread, ogni cosa è percepita come una potenziale minaccia alla propria esistenza.

E poi ho immaginato il ragazzino ripetere queste parole come un mantra e gridarle, perché aveva veramente capito cosa significano, il giorno in cui aveva messo il piede su una mina e si era ritrovato con la gamba in mano.

 

Tarantino Style Jihad

Isil flag

Chissà se Quentin l’avrebbe mai sospettato, che il suo stile avrebbe fatto scuola anche fra i nuovi conquistatori del Mashrek, i propagandisti dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante. Se guardasse la serie dei video Clanging of the swords, dal primo all’apoteosi del quarto, non avrebbe più dubbi.


Su questo sito http://justpaste.it/Saleel_As_Sawarim4 ne potrebbe trovare forniture a bizzeffe ma c’è una notevole differenza tra i primi tentativi e l’ultimo. La regia è davvero superlativa, i device sono high quality and pro e lo splatter da grand guignol ha lasciato spazio a un umorismo nero che emerge dai continui richiami alla shahada, la professione di fede. Senza contare che il movie in questione è stato sfornato da una vera e propria casa di produzione, al-Furqan media.


Guardate il video qui, sul sito che raccoglie, per tutti gli analisti sul tema del jihad, i migliori documenti da tutto il mondo.

http://jihadology.net/2014/05/17/al-furqan-media-presents-a-new-video-message-from-the-islamic-state-of-iraq-and-al-sham-clanging-of-the-swords-part-4/


Il video si apre con la solita mappa della terra in tre D, tipica di tutti i movie religiosi che spiegano i pilastri della sunna, la nascita dell’universo, la presenza di Dio nel mondo. Prosegue con l’elaborazione in tre D di immagini satellitari e poi inizia a mostrarci tecnicamente il meglio: una sequenza  realizzata da elicottero, girata in GoPro Hero, per mostrare la conquista di Falluja, benedetta da Allah.


La GoPro viene utilizzata in tutte le riprese di azione violenta, alternata con un’altra camera professionale. E la narrazione vuole mostrare nel più breve tempo possibile quanti supposti civili (in realtà soldati dell’esercito regolare iracheno che si erano travestiti da civili per fuggire) siano stati crivellati di colpi dai miliziani di Isil, in inseguimenti stradali consecutivi e in uno stile che ricorda il meglio di Tarantino ma che stuzzica la prima familiarità del pubblico con tutti i videogiochi di guerra, in particolare con “Call of Duty”.


Un prodotto di questo genere è un grandissimo colpo ben sferrato dalla propaganda e dalla strategia di conquista di Isil (guarda le infografiche del NYT nel link precedente, ndr) e conferma quanto già noto prima.

Guardando gli altri movie/video messaggi di Islamic State of Iraq and al-Shams, dai titoli da saga di Game of Thrones in salsa islamica (Messages, from the land of Epic Battles #22, But who is better than God in Judgement, e He named you Muslims) e le dichiarazioni di Sheik Abu Waheeb - uno degli ufficiali di Isil e spokesman di nazionalità kosovara come molti altri combattenti stranieri in Siria e Iraq, che lancia la fitna “Noi conquisteremo Gerusalemme, distruggeremo  gli eredi di Isacco, ci prenderemo Roma e la Spagna ritornerà nostra” - una cosa è drammaticamente chiara.


Che la guerra in Jugoslavia, l’11 settembre, le guerre del Golfo, l’occupazione dell’Afghanistan, i droni in Pakistan e Yemen, hanno generato dei mostri a troppe teste. Serpi in seno allo stesso Occidente che, totalmente ignoranti di millenni di storia in Medio Oriente, prima che azzerare i cristiani o gli sciiti, stanno azzerando i sunniti stessi e trasformando per paura, per necessità, per ignoranza, centinaia di persone pacifiche in vittime della loro stessa fede alterata ed estremizzata, carnefici di altri musulmani prima che degli infedeli. Come? Con in una mano il Corano, con l’altra l’AK47 e addosso la GoProhero. La Tarantino Style Jihad è appena iniziata. Buona visione.

Morsi, iconografia di un martire annunciato

Venditore di bibite nel campo di Al Rabaa al Cairo

ll ritratto di Mohamed Morsi campeggia ovunque. Sui volantini distribuiti dopo la preghiera dell'alba, sugli autobus bianchi dei Fratelli Musulmani parcheggiati all'ingresso del grande campo di Rabaa al-Adawjia, sui carretti della distribuzione di the, acqua, bevande e succo di melograno che punteggiano la via per arrivare alla roccaforte della protesta anti-generali.


Il volto del politico che Time incoronò "uomo dell'anno" nel 2012 è replicato ossessivamente, come in un videogioco a punti con una grafica splatter, sopra, sotto e di fronte alle migliaia di tende che ricoprono questa superficie di quasi quattro chilometri quadrati al Cairo brulicante di supporters dell'ex presidente egiziano dal 3 luglio 2012, data del suo arresto con l'accusa di cospirazione.


Mohamed Morsi qui è onnipresente, guarda i suoi fedeli dall'alto del suo ritratto peggiore, ingessatissimo nel fermo immagine che sancisce la sua sacralità. Così replicato ovunque appare come un cento occhi e centoteste, una creatura medievale dalla faccia presentabile che si allunga sugli esiti del colpo di stato di un mese fa. Un colpo di stato che chiunque si guarda bene, qui, a Rabaa al-Adawjia, dal definire seconda rivoluzione o contro-rivoluzione.


Mohamed Morsi, ora prigioniero a Nord del Cairo, dove si trova il ministero della Difesa, è colui nel cui nome si circoscrive la preghiera dell'alba di Eid, e che nel giorno più importante dell'anno per la Umma sunnita si manifesta al campo di Rabaa nel pomeriggio, per interposta persona: la moglie Nagla Mahmoud.


Per lui si chiede la liberazione e nel suo nome viene già giustificata la resistenza dei Fratelli musulmani verso l'apparato di potere dei generali, che ha utilizzato l'esito delle votazioni prima, il temporeggiamento dei Fratelli poi, la loro interpretazione integralista della futura costituzione, per riprendere con la forza il controllo di un Paese ormai allo sbando, economicamente piegato da una credibilità ai suoi minimi storici.


"Io amo Morsi"; "Morsi, Morsi, in te la speranza"; "Morsi Morsi sempre Morsi, mai più Al Sisi": sono alcuni degli slogan che campeggiano insieme all'immagine dell'ex presidente egiziano. Si alternano anche sulle fasce - verdi, nere, marroni - che la gioventù ihwanizzata sfoggia intorno alla testa, replicando l'iconografia jihaddista in forme moderate: "Il popolo arabo è la comunità islamica". "Siamo arabi, moriremo islamici".


L'appartenenza alla Umma sunnita, per i Fratelli musulmani, non si discute. Vale per tutti, da qualsiasi grado di vicinanza o distrazione del partito e dalle sue istanze si stia parlando. Ed è perfettamente connaturata con l'interpretazione del rispetto dei diritti umani che, per i supporters di Morsi, discende solo da Dio ed è strettamente collegata alla legge di natura che segue i dettami di Allah, secondo quanto ne rivelò Mohammed.


Lo dice senza tema Sara Hassan, ventenne di El-Adwah, la città di nascita dell'ex presidente oggi ostaggio di Al Sisi. La sua famiglia è cresciuta accanto a Morsi. In senso letterale, perchè sono sempre stati suoi vicini di casa. Hanno piantato una tenda da giorni e hanno pure affittato un appartamento in zona per stare più comodi. Ci sono tutti: padre, madre, cugini, fratelli e sorelle, zie e nipoti. Morsi per tutti, tutti per Morsi, insomma. Ma la motivazione che li spinge fin qui non è squisitamente politica. L'ideale di famiglia e l'appartenenza alla Umma sono abbastanza. Ma la conoscenza diretta del personaggio spiega ancora di più la scelta di stare dalla sua parte, costi quel che costi. Dice Sara: "Noi lo conosciamo: è un uomo buono. L'hanno esposto e ne paga il prezzo. Adesso è in carcere e siamo certi che il trattamento riservatogli non è umano".


Chiediamo che tipo di valenza ha il concetto di rispetto dei diritti umani per i Fratelli Musulmani. Risponde: "Il rispetto dell'uomo  viene dal fatto che l'uomo appartiene a Dio". E chi non appartiene a quel Dio? "Non saprei. Quel che so è che l'Egitto è un Paese islamico, noi siamo islamici e Morsi è il nostro presidente. Nell'Islam il rispetto dell'uomo viene dalla sua conoscenza di Dio. Morsi è un uomo timorato di Dio, ha portato avanti la nostra causa, noi dobbiamo adesso batterci per lui".


Sara è una ragazza laureata, progressista, una giovane donna musulmana tosta, pronta per fare una buona carriera nei quadri dei Fratelli, se le fosse data la possibiità. Morsi per lei è già un mezzo martire. E lo è per tutte le persone, che, sulla strada del campo, lastricata da molte buone intenzioni, lo hanno eletto a icona della rivoluzione incompiuta o, meglio, ingiustamente ribaltata. La sua detenzione, nonostante Morsi sia inizialmente asceso al ruolo di guida dei Fratelli quasi come un ripiego necessario, ne ha già fatto un gigante morale.


Se il nuovo governo non dovesse scarcerarlo, se lo processasse o  se in qualche modo se ne favorisse la morte, gli effetti saranno amplificati sugli ihwan egiziani ma anche su tutti gli  arabi sunniti del Medio Oriente. Alla causa palestinese per la quale tutti i popoli arabi si sono sentiti in dovere di aderire nella lotta comune, se ne potrebbe aggiungere un'altra.


Sarebbe il primo caso in cui parrebbe possibile incitare alla resistenza - dei fedeli prima e al martirio dei combattenti poi - per difendere un leader pacioccone e perditempo, un martire in pectore che non si sarebbe davvero speso con opere o azioni degne di nota per il suo popolo di elettori e, soprattutto, per un Paese dalla storia ingombrante.


Lo scorso 29 luglio, ormai conosciuto come "il massacro di Rabaa",  nella roccaforte dei pro-Morsi sono morte 127 persone e 4500 sono state ferite negli scontri con l'esercito e la polizia. Chiedevano tutte di relegittimare Mohammed Morsi come presidente dell'Egitto.

Cartoline da Baghdad 1, lo scemo del villaggio

Giovane uomo delle pulizie a Baghdad

Nei suoi occhi, anche se mediata dallo schermo, ho visto tutta la voglia di  conquista del Saladino, la crudeltà di Gengis Khan, lo slancio sportivo di un Carl Lewis. Eppure, a fargli imporporar le guance, è solo l’idealismo, l’eccesso ormonale di un ragazzo di appena 18 anni. Uno che ricorda Baghdad da piccolo e non c’è mai più tornato perché il padre è stato estradato dal Paese per avere denunciato gli orrori di FallujaUno che è vissuto bene, in un ricco Paese del Golfo, ma sempre con gli orrori della guerra in casa, una madre divenuta disabile per una ferita di guerra, un padre psicologicamente bipolare e traumatizzato.


Così, quando A. mi ha detto con enfasi “ci riprenderemo Baghdad”, ho capito in un battito di ciglia – le mie, perché non ci potevo credere – ciò che una cinquantina di articoli di geopolitica non riescono a spiegare. Vale a dire, perché migliaia di iracheni esultano all’idea dell’avanzata di Daesh/Isil. “Ci riprenderemo Baghdad, Baghdad è nostra”. Me l’ha ripetuto un’altra volta e ho ringraziato Dio per il fatto che il suo è ancora l’idealismo di chi si siede su un divano e gioca alla playstation, e dunque è tendenzialmente innocuo.

 


Ma chissà cosa farebbe A. se potesse partire, chissà se partirebbe per riconquistare la sua Baghdad, che gli è stata tolta dall’infanzia e dove suo padre non può mettere più piede. Chissà, se sapesse oleare un kalashnikov che suo padre non gli ha mai dato in mano perché è un uomo di pace. Quelli come lui, con più mobilità di lui, più grandi di lui e con la soglia di ragionevolezza abbassata, piuttosto che tifare come in una partita di calcio, preferirebbero essere i calciatori. Combattenti, armati, eroi per un sogno di riconquista fino alla morte, per riscattare gli orrori che hanno subito i padri, per ridare una casa sulla terra a un fantasma del passato.

 


Non è la prima volta che sento questa frase. “Ci riprenderemo Baghdad” ha echeggiato nella mia mente per qualche secondo, poi l’ho rivista sul labiale di un cinquantenne ossuto e pazzo che deambulava per strada al mattino delle ultime elezioni. In shara Baghdad c’era solo lui, mezzo nudo, alle 6.30 del mattino, e gridava. Gridava “maledetto al-Maliki, maledetti americani, maledetti tutti che ancora andate a votare, poveri scemi”. Apostrofò anche me, sputandomi quasi in faccia, pensando che fossi irachena, pensando che andassi a votare.

 


Lo incontrai di nuovo al ritorno dalla giornata elettorale alle ore 3 del pomeriggio. Stessa strada, stessi portici. Teneva le mani alzate e un soldato delle forze speciali, armato fino ai denti e imbottito come un palombaro, premeva il fucile automatico sulla sua tempia destra. Intorno, una decina di persone stavano a guardare. L’ufficiale intimava all’uomo che “basta, non ti permettere, statti zitto, non parlare più”. Era una scena di violenza rappresa, sospesa. Non un rumore intorno, nella Baghdad deserta di quel giorno eccezionale. Solo quei due nel cono d’ombra dei portici che si sfidavano ad armi impari e un pubblico che non ha bisogno di pagare per godere di questi spettacoli. Da un lato la forza goffa, dall’altro l’allerta della follia. Di fronte il sonno della ragione. Forse per questo nessuno intorno intercedeva, tentava di sottolineare che quello era solo un pazzo, uno dei tanti che lo son diventati clinicamente dopo un conflitto di dieci anni e una vita successiva di stenti e paure. La canna era sempre ben poggiata sulle sue tempie mentre lui, il “pazzo”, sibilava “Stai attento, ci riprenderemo Baghdad”.

 


Chissà se quell’uomo era veramente pazzo, uno scemo del villaggio qualunque; chissà se, invece, non era la coscienza collettiva di quei dieci che si godevano la scena e di tutti gli altri, dispersi per il mondo, che sognano ancora le rose nel giardino di Karrada, una bandiera a tre strisce orizzontali, rossa, nera e bianca, senza alcuna scritta color verde sciita in mezzo, e che sono arrivati a sostenere la mafia islamica e criminale di Isis per liberarsi di un’altra che ha il colletto bianco, il turbante degli ayatollah e il portafogli a stelle e strisce. 

Silenzio, si spera

Paludi irachene, provincia di BassoraNel nome è il destino. Una massima latina che ha una sua verità. E ha una sua verità per i nomi degli uomini, dei luoghi,  anche delle idee. Così, quando i colleghi Amedeo ed Elio, insieme a Susan Dabbous e Andrea Vignali, diedero il nome al nuovo progetto, quel titolo non ci piacque affatto.


"Silenzio, si muore" ha una forza disarmante, un retrogusto sinistro. Eppure mai nome di un progetto mediatico sulla Siria sembrava più azzeccato. Era perfetto per descrivere una tragedia dimenticata, per accendere l'attenzione sulle migliaia di vittime dall'inizio delle proteste, per dare l'idea di una terra dove il silenzio e l'acquiescenza, per il timore che qualcuno possa parlare, e peggio, perseguitarti e ucciderti, la fanno da padroni dai tempi di Assad padre.  Ma certo non avevamo previsto che in quel nome ci sarebbe stata una parte della storia e che la storia sarebbero stata, involontariamente, loro.


Proprio loro che, in quanto giornalisti che non hanno mai perduto lo spirito autoptico della ricerca e della verifica sul campo, volevano dare voce a chi non ce l'ha e che sono diventati essi stessi, come in un reality girato male, parte del conflitto e di questo silenzio. Sapere di essere diventati protagonisti dei media, ne siamo certi, non farà a loro piacere. E questo va detto contrariamente a quanti, con pochezza intellettuale, provano già invidia, immaginando il rientro dei presunti ostaggi e ipotizzando che il libro paga dei quattro salirà esponenzialmente alle stelle.


Non c'è paga e non c'è storia che valga una sola di queste vite. Ce lo insegnano le vicende di Ilaria Alpi, Miran Hrovatin, Antonio Russo, Marco Lucchetta, Marcello Palmisano, Maria Grazia Cutuli, Raffaele Ciriello. Ma non c'è silenzio che oggi, a sei giorni dal fermo effettuato, ci appaia più assordante. Quel silenzio che è stato interrotto all'inizio, per il cinismo del nostro mestiere, per l'ansia spasmodica di arrivare per primi e fare il botto di ascoltatori e che, per lo stesso principio, in queste ore, blocca ciascuno dal proferire una sola parola, che sia una, in merito.


Così, se nel nome è il destino, il silenzio è più che un destino: è già una realtà, una condizione imposta, una lezione che si abbatte sui media che lo hanno violato all'inizio, quegli stessi media che amano dare risposte immediate e letture univoche su un conflitto sul quale sarebbe meglio parlare sempre in modo circostanziato e problematico, esercitando la ragionevolezza del dubbio, non patteggiando come allo stadio per due squadre in lotta. In questo silenzio, oggi, si ritrovano, loro malgrado, tutti: i pro Assad, gli anti Assad, gli attivisti, gli ecclesiastici, i giornalisti, gli analisti. Questo silenzio impone il dubbio a chi ha sempre avuto certezze e, da questo punto di vista, il progetto "Silenzio, si muore" ha già una sua grave e circostanziata risposta.


Ora, affinché questo lavoro possa avere la conclusione che merita, vorremmo sapere che il destino non ha presunzioni e che, per una volta, potrebbe non risolversi nei suoi modi ineluttabili. In queste ore di attesa vorremmo scambiare l'angoscia con un sentire diverso e rivoltare il destino al secondo nome scelto dai quattro colleghi. Vorremmo poter dire "Silenzio, si spera", sapendo che ne è valsa davvero la pena.

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