Morsi, iconografia di un martire annunciato
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- Pubblicato Sabato, 10 Agosto 2013 13:41
- Scritto da Battgirl
ll ritratto di Mohamed Morsi campeggia ovunque. Sui volantini distribuiti dopo la preghiera dell'alba, sugli autobus bianchi dei Fratelli Musulmani parcheggiati all'ingresso del grande campo di Rabaa al-Adawjia, sui carretti della distribuzione di the, acqua, bevande e succo di melograno che punteggiano la via per arrivare alla roccaforte della protesta anti-generali.
Il volto del politico che Time incoronò "uomo dell'anno" nel 2012 è replicato ossessivamente, come in un videogioco a punti con una grafica splatter, sopra, sotto e di fronte alle migliaia di tende che ricoprono questa superficie di quasi quattro chilometri quadrati al Cairo brulicante di supporters dell'ex presidente egiziano dal 3 luglio 2012, data del suo arresto con l'accusa di cospirazione.
Mohamed Morsi qui è onnipresente, guarda i suoi fedeli dall'alto del suo ritratto peggiore, ingessatissimo nel fermo immagine che sancisce la sua sacralità. Così replicato ovunque appare come un cento occhi e centoteste, una creatura medievale dalla faccia presentabile che si allunga sugli esiti del colpo di stato di un mese fa. Un colpo di stato che chiunque si guarda bene, qui, a Rabaa al-Adawjia, dal definire seconda rivoluzione o contro-rivoluzione.
Mohamed Morsi, ora prigioniero a Nord del Cairo, dove si trova il ministero della Difesa, è colui nel cui nome si circoscrive la preghiera dell'alba di Eid, e che nel giorno più importante dell'anno per la Umma sunnita si manifesta al campo di Rabaa nel pomeriggio, per interposta persona: la moglie Nagla Mahmoud.
Per lui si chiede la liberazione e nel suo nome viene già giustificata la resistenza dei Fratelli musulmani verso l'apparato di potere dei generali, che ha utilizzato l'esito delle votazioni prima, il temporeggiamento dei Fratelli poi, la loro interpretazione integralista della futura costituzione, per riprendere con la forza il controllo di un Paese ormai allo sbando, economicamente piegato da una credibilità ai suoi minimi storici.
"Io amo Morsi"; "Morsi, Morsi, in te la speranza"; "Morsi Morsi sempre Morsi, mai più Al Sisi": sono alcuni degli slogan che campeggiano insieme all'immagine dell'ex presidente egiziano. Si alternano anche sulle fasce - verdi, nere, marroni - che la gioventù ihwanizzata sfoggia intorno alla testa, replicando l'iconografia jihaddista in forme moderate: "Il popolo arabo è la comunità islamica". "Siamo arabi, moriremo islamici".
L'appartenenza alla Umma sunnita, per i Fratelli musulmani, non si discute. Vale per tutti, da qualsiasi grado di vicinanza o distrazione del partito e dalle sue istanze si stia parlando. Ed è perfettamente connaturata con l'interpretazione del rispetto dei diritti umani che, per i supporters di Morsi, discende solo da Dio ed è strettamente collegata alla legge di natura che segue i dettami di Allah, secondo quanto ne rivelò Mohammed.
Lo dice senza tema Sara Hassan, ventenne di El-Adwah, la città di nascita dell'ex presidente oggi ostaggio di Al Sisi. La sua famiglia è cresciuta accanto a Morsi. In senso letterale, perchè sono sempre stati suoi vicini di casa. Hanno piantato una tenda da giorni e hanno pure affittato un appartamento in zona per stare più comodi. Ci sono tutti: padre, madre, cugini, fratelli e sorelle, zie e nipoti. Morsi per tutti, tutti per Morsi, insomma. Ma la motivazione che li spinge fin qui non è squisitamente politica. L'ideale di famiglia e l'appartenenza alla Umma sono abbastanza. Ma la conoscenza diretta del personaggio spiega ancora di più la scelta di stare dalla sua parte, costi quel che costi. Dice Sara: "Noi lo conosciamo: è un uomo buono. L'hanno esposto e ne paga il prezzo. Adesso è in carcere e siamo certi che il trattamento riservatogli non è umano".
Chiediamo che tipo di valenza ha il concetto di rispetto dei diritti umani per i Fratelli Musulmani. Risponde: "Il rispetto dell'uomo viene dal fatto che l'uomo appartiene a Dio". E chi non appartiene a quel Dio? "Non saprei. Quel che so è che l'Egitto è un Paese islamico, noi siamo islamici e Morsi è il nostro presidente. Nell'Islam il rispetto dell'uomo viene dalla sua conoscenza di Dio. Morsi è un uomo timorato di Dio, ha portato avanti la nostra causa, noi dobbiamo adesso batterci per lui".
Sara è una ragazza laureata, progressista, una giovane donna musulmana tosta, pronta per fare una buona carriera nei quadri dei Fratelli, se le fosse data la possibiità. Morsi per lei è già un mezzo martire. E lo è per tutte le persone, che, sulla strada del campo, lastricata da molte buone intenzioni, lo hanno eletto a icona della rivoluzione incompiuta o, meglio, ingiustamente ribaltata. La sua detenzione, nonostante Morsi sia inizialmente asceso al ruolo di guida dei Fratelli quasi come un ripiego necessario, ne ha già fatto un gigante morale.
Se il nuovo governo non dovesse scarcerarlo, se lo processasse o se in qualche modo se ne favorisse la morte, gli effetti saranno amplificati sugli ihwan egiziani ma anche su tutti gli arabi sunniti del Medio Oriente. Alla causa palestinese per la quale tutti i popoli arabi si sono sentiti in dovere di aderire nella lotta comune, se ne potrebbe aggiungere un'altra.
Sarebbe il primo caso in cui parrebbe possibile incitare alla resistenza - dei fedeli prima e al martirio dei combattenti poi - per difendere un leader pacioccone e perditempo, un martire in pectore che non si sarebbe davvero speso con opere o azioni degne di nota per il suo popolo di elettori e, soprattutto, per un Paese dalla storia ingombrante.
Lo scorso 29 luglio, ormai conosciuto come "il massacro di Rabaa", nella roccaforte dei pro-Morsi sono morte 127 persone e 4500 sono state ferite negli scontri con l'esercito e la polizia. Chiedevano tutte di relegittimare Mohammed Morsi come presidente dell'Egitto.
Silenzio, si spera
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- Pubblicato Martedì, 09 Aprile 2013 18:35
- Scritto da Battgirl
Nel nome è il destino. Una massima latina che ha una sua verità. E ha una sua verità per i nomi degli uomini, dei luoghi, anche delle idee. Così, quando i colleghi Amedeo ed Elio, insieme a Susan Dabbous e Andrea Vignali, diedero il nome al nuovo progetto, quel titolo non ci piacque affatto.
"Silenzio, si muore" ha una forza disarmante, un retrogusto sinistro. Eppure mai nome di un progetto mediatico sulla Siria sembrava più azzeccato. Era perfetto per descrivere una tragedia dimenticata, per accendere l'attenzione sulle migliaia di vittime dall'inizio delle proteste, per dare l'idea di una terra dove il silenzio e l'acquiescenza, per il timore che qualcuno possa parlare, e peggio, perseguitarti e ucciderti, la fanno da padroni dai tempi di Assad padre. Ma certo non avevamo previsto che in quel nome ci sarebbe stata una parte della storia e che la storia sarebbero stata, involontariamente, loro.
Proprio loro che, in quanto giornalisti che non hanno mai perduto lo spirito autoptico della ricerca e della verifica sul campo, volevano dare voce a chi non ce l'ha e che sono diventati essi stessi, come in un reality girato male, parte del conflitto e di questo silenzio. Sapere di essere diventati protagonisti dei media, ne siamo certi, non farà a loro piacere. E questo va detto contrariamente a quanti, con pochezza intellettuale, provano già invidia, immaginando il rientro dei presunti ostaggi e ipotizzando che il libro paga dei quattro salirà esponenzialmente alle stelle.
Non c'è paga e non c'è storia che valga una sola di queste vite. Ce lo insegnano le vicende di Ilaria Alpi, Miran Hrovatin, Antonio Russo, Marco Lucchetta, Marcello Palmisano, Maria Grazia Cutuli, Raffaele Ciriello. Ma non c'è silenzio che oggi, a sei giorni dal fermo effettuato, ci appaia più assordante. Quel silenzio che è stato interrotto all'inizio, per il cinismo del nostro mestiere, per l'ansia spasmodica di arrivare per primi e fare il botto di ascoltatori e che, per lo stesso principio, in queste ore, blocca ciascuno dal proferire una sola parola, che sia una, in merito.
Così, se nel nome è il destino, il silenzio è più che un destino: è già una realtà, una condizione imposta, una lezione che si abbatte sui media che lo hanno violato all'inizio, quegli stessi media che amano dare risposte immediate e letture univoche su un conflitto sul quale sarebbe meglio parlare sempre in modo circostanziato e problematico, esercitando la ragionevolezza del dubbio, non patteggiando come allo stadio per due squadre in lotta. In questo silenzio, oggi, si ritrovano, loro malgrado, tutti: i pro Assad, gli anti Assad, gli attivisti, gli ecclesiastici, i giornalisti, gli analisti. Questo silenzio impone il dubbio a chi ha sempre avuto certezze e, da questo punto di vista, il progetto "Silenzio, si muore" ha già una sua grave e circostanziata risposta.
Ora, affinché questo lavoro possa avere la conclusione che merita, vorremmo sapere che il destino non ha presunzioni e che, per una volta, potrebbe non risolversi nei suoi modi ineluttabili. In queste ore di attesa vorremmo scambiare l'angoscia con un sentire diverso e rivoltare il destino al secondo nome scelto dai quattro colleghi. Vorremmo poter dire "Silenzio, si spera", sapendo che ne è valsa davvero la pena.
Cose da Babilonia 2
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- Pubblicato Giovedì, 11 Ottobre 2012 14:00
- Scritto da Battgirl
Qui il matrimonio è una cosa seria, serissima. Allo Sheraton Ishtar di Baghdad ogni giorno c'è un banchetto di nozze. Ogni giorno arrivano almeno quattro coppie di sposini freschi freschi che varcano la soglia dell'albergo con un seguito di donne ululanti di tutte le età.
Perché qui, quando ci si sposa, si ulula. Come buon augurio, come atto scaramantico, come premonizione per la sposa: in fondo, tra poco, succederà qualcosa che lei (ancora) non sa cosa sia ma che la costringerà a emettere un qualche suono.
In quattro giorni di prigionia che volevasi forzata ma che ci siamo ostinati venisse spezzata nell'albergo più dorato della città, ci sono passate davanti una ventina di coppie. Lei era sempre giovane, se non giovanissima. A un paio avremmo dato meno di diciotto anni. Qualcuna, appena arrivata al banco del ceck in, con tutto il seguito di parenti sgargianti e gorgheggianti, era bianca come un cencio, tesa.
Del resto, c'è sempre la suocera di lei che controlla l'andamento del matrimonio. Tocca a lei accompagnare la coppia nella camera nuziale per controllare che le cose siano tutte a posto. La "cosa" piu' importante la controllerà il marito.
Nonostante l'Iraq sia un Paese del Medio Oriente composito, complesso e perfettamente abituato alle differenze religiose, nonostante gli orrori della guerra e la tendenza verso una progressiva iranizzazione del potere (non ancora dei costumi) alcune tradizioni tribali sono dure a morire. Noor, ventenne brunetta di Baghdad, laureata in cinematografia, ce lo dice senza peli sulla lingua: "Troppe ragazze, in questa società, hanno la bocca ben cucita e tante vengono sposate, quando non letteralmente vendute dalle famiglie, ancora bambine, a uomini molto più grandi di loro".
In questi casi, la certezza sulla loro verginità è totale. Ma anche ad altre età su queste cose non si scherza. Nella hall dello Sheraton Ishtar, verso le quattro del pomeriggio, gli sposini fanno la loro comparsa dopo la prima notte. Lui ha quasi sempre uno sguardo trionfante. Lei, pallida e vergognosa, ormai vestita da signora, non posa nemmeno per un attimo lo sguardo sullo staff dell'albergo. Lui tiene saldamente in pugno un sacco di plastica trasparente: l'abito da sposa è lì, strapazzato e sbattuto. Non sarà nemmeno il caso di conservarlo: lei si augura di non sposarsi mai più.
Così li vedi allontanarsi, in controluce, scontornati nell'aria sabbiosa della città. L'abito ballonzola nauseato nel pugno di lui. Lei è già passata dalla potestà del padre e quella del marito e questo è il segno di come tutto cambia affinchè tutto rimanga come prima.
Una storia già vista e sentita a Baghdad.
Cose da Babilonia 3
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- Pubblicato Giovedì, 18 Ottobre 2012 09:49
- Scritto da Battgirl
Il metodo Stanislavskij
Le vite degli altri continuano a piacere ai neo governi del Medioriente. Nel "tutto cambia affinché tutto resti come prima", questo divertimento è assicurato. Controllare è uno sport di società che si gioca a mano libera e facendo i bari: l'importante è sempre il risultato.
Il reporter occidentale, che su questi argomenti è più naive dei colleghi africani o asiatici - alle prese quotidianamente con la (negata) libertà di stampa e d'opinione - rischia di cascarci come un pollo. Ma ci sono dei casi in cui i servizi segreti, presumendo esattamente ciò, danno prova di non essere più quelli di una volta.
Cose da Babilonia 1
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- Pubblicato Mercoledì, 10 Ottobre 2012 07:49
- Scritto da Battgirl
Siamo a Baghdad da tre giorni e non abbiamo più dubbi: le società che rinascono dopo la guerra sono le più assurde e pericolose ma anche le più energetiche.
Perchè in quel misto di dust&dark, di polvere e buio assoluto, camminando alle dieci di sera nella Zona Rossa, non molto lontano dall'hotel Palestine, dove nel 2003 i colleghi documentavano la guerra godendosi i bombardamenti dal quindicesimo piano, ci si sente impastati di destino e volontà, in una specie disfacimento creativo da viaggiatori masochisti.
Cosi puoi trovarti con i pantaloni di seta impigliati nel filo spinato del ceck point dopo una cena con un quasi ministro sulle rive del Tigri, mentre le auto ti strombazzano alle spalle e l'uomo della sicurezza che te le deve guardare sta amabilmente discutendo di bamja e divisioni settarie camminando in avanti. Tu sei lì con la pancia piena, dopo avere apprezzato il pesce del luogo, arrostito sul fuoco da una decina di ragazzotti, in un ristorante che ha l'aspetto della mensa della protezione civile dell'Aquila dopo il terremoto, visto che gli avventori vengono stipati in una serie di container attaccati l'uno all'altro.
La cena potrebbe anche essere gradevole se quel pesce tondo, grasso, delizioso, nel suo gigantismo non ti facesse ripensare ai corpi enfiati e purulenti di Falluja, dopo l'attacco americano al fosforo bianco. Non molto lontano dal ristorante, sulle rive del Tigri, i ratti fanno festa dei resti del pesce, a ridosso dei murales che recintano i grandi alberghi, tra edifici incorniciati da una selva di fili elettrici, quinte teatrali di quartieri zoppi, devastati al punto giusto per non riuscire a mettere in piedi un altro spettacolo.
Non solo i pesci, ma anche i topi del Tigri sono enormi. Qualcuno ha già spirato l'anima al suo dio minore di fronte ai murales dipinti in grigio con le glorie della Mesopotamia, il ventre squarciato dalla zampata di un gatto.
Gli uomini ridono troppo, si arrabbiano troppo, si eccitano troppo. Le donne non sorridono, ma non perché qualcuno abbia insegnato loro che è meglio fare così. Non sorridono perchè non ne hanno più motivo. Un paio ce lo dicono candidamente: non riesco a sentire più nulla, non mi importa di nulla. Per contro, i ventenni hanno accumulato tutte le energie rimaste in mezzo lustro di conflitti. "Non ho memoria della mia infanza, non ho fotografie - dice Taher - non so chi ero". Ma sa chi è adesso. Studia cinematografia e vuole fare un film in cui parla del nulla che precede il suo sopravvivere qui. Il punto debole sono i soldi per farlo, il governo latitante sui bisogni collettivi, le divisione settarie, il terrorismo. Taher viene da Sadr City, enclave sunnita di Baghdad. Il quartiere dei perdenti e dei resistenti, dipende dai punti di vista. E' orgoglioso di appartenere al clan dei Kweish ma non riesce ad accettare che gli rimanga solo l'orgoglio di essere iracheno, un giovane iracheno di Baghdad.
In questo luogo, dove resta quel che resta di giardini e palme che supponi fossero meravigliosi e tutto è ricoperto da uno strato di polvere e sabbia che non nasconde la corruzione imperante, hai la percezione chiara che Baghdad non sia più una città.
Baghdad è una morta vivente, uno zombie edilizio a cui si attaccano pezzi di vite umane nate e sopravvissute qui. Gli unici rimasti a farle il filo sono avanzi di galera stranieri in cerca di una seconda opportunità. Per il resto, è un buco nero che grida vendetta e vuole ottenerla ad ogni costo.