Cose da Babilonia 3

 

Il metodo Stanislavskij

Le vite degli altri continuano a piacere ai neo governi del Medioriente. Nel "tutto cambia affinché tutto resti come prima", questo divertimento è assicurato. Controllare è uno sport di società che si gioca a mano libera e facendo i bari: l'importante è sempre il risultato.

 

Il reporter occidentale, che su questi argomenti è più naive dei colleghi africani o asiatici - alle prese quotidianamente con la (negata) libertà di stampa e d'opinione - rischia di cascarci come un pollo. Ma ci sono dei casi in cui i servizi segreti, presumendo esattamente ciò, danno prova di non essere più quelli di una volta.

 

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Cose da Babilonia 2

Qui il matrimonio è una cosa seria, serissima. Allo Sheraton Ishtar di Baghdad ogni giorno c'è un banchetto di nozze. Ogni giorno arrivano almeno quattro coppie di sposini freschi freschi che varcano la soglia dell'albergo con un seguito di donne ululanti di tutte le età.

Perché qui, quando ci si sposa, si ulula. Come buon augurio, come atto scaramantico, come premonizione per la sposa: in fondo, tra poco, succederà qualcosa che lei (ancora) non sa cosa sia ma che la costringerà a emettere un qualche suono.

In quattro giorni di prigionia che volevasi forzata ma che ci siamo ostinati venisse spezzata nell'albergo più dorato della città, ci sono passate davanti una ventina di coppie. Lei era sempre giovane, se non giovanissima. A un paio avremmo dato meno di diciotto anni. Qualcuna, appena arrivata al banco del ceck in, con tutto il seguito di parenti sgargianti e gorgheggianti, era bianca come un cencio, tesa.

Del resto, c'è sempre la suocera di lei che controlla l'andamento del matrimonio. Tocca a lei accompagnare la coppia nella camera nuziale per controllare che le cose siano tutte a posto. La "cosa" piu' importante la controllerà il marito.

Nonostante l'Iraq sia un Paese del Medio Oriente composito, complesso e perfettamente abituato alle differenze religiose, nonostante gli orrori della guerra e la tendenza verso una progressiva iranizzazione del potere (non ancora dei costumi) alcune tradizioni tribali sono dure a morire. Noor, ventenne brunetta di Baghdad, laureata in cinematografia, ce lo dice senza peli sulla lingua: "Troppe ragazze, in questa società, hanno la bocca ben cucita e tante vengono sposate, quando non letteralmente vendute dalle famiglie, ancora bambine, a uomini molto più grandi di loro".

In questi casi, la certezza sulla loro verginità è totale. Ma anche ad altre età su queste cose non si scherza. Nella hall dello Sheraton Ishtar, verso le quattro del pomeriggio, gli sposini fanno la loro comparsa dopo la prima notte. Lui ha quasi sempre uno sguardo trionfante. Lei, pallida e vergognosa, ormai vestita da signora, non posa nemmeno per un attimo lo sguardo sullo staff dell'albergo. Lui tiene saldamente in pugno un sacco di plastica trasparente: l'abito da sposa è lì, strapazzato e sbattuto. Non sarà nemmeno il caso di conservarlo: lei si augura di non sposarsi mai più.

Così li vedi allontanarsi, in controluce, scontornati nell'aria sabbiosa della città. L'abito ballonzola nauseato nel pugno di lui. Lei è già passata dalla potestà del padre e quella del marito e questo è il segno di come tutto cambia affinchè tutto rimanga come prima.

Una storia già vista e sentita a Baghdad.

Avvenire 06-08-2010

avvenire 06-08-2010

Cose da Babilonia 1

 

 

baghdad

Siamo a Baghdad da tre giorni e non abbiamo più dubbi: le società che rinascono dopo la guerra sono le più assurde e pericolose ma anche le più energetiche. 

Perchè in quel misto di dust&dark, di polvere e buio assoluto, camminando alle dieci di sera nella Zona Rossa, non molto lontano dall'hotel Palestine, dove nel 2003 i colleghi documentavano la guerra godendosi i bombardamenti dal quindicesimo piano, ci si sente impastati di destino e volontà, in una specie disfacimento creativo da viaggiatori masochisti. 

Cosi puoi trovarti con i pantaloni di seta impigliati nel filo spinato del ceck point dopo una cena con un quasi ministro sulle rive del Tigri, mentre le auto ti strombazzano alle spalle e l'uomo della sicurezza che te le deve guardare sta amabilmente discutendo di bamja e divisioni settarie camminando in avanti. Tu sei lì con la pancia piena, dopo avere apprezzato il pesce del luogo, arrostito sul fuoco da una decina di ragazzotti, in un ristorante che ha l'aspetto della mensa della protezione civile dell'Aquila dopo il terremoto, visto che gli avventori vengono stipati in una serie di container attaccati l'uno all'altro. 

La cena potrebbe anche essere gradevole se quel pesce  tondo, grasso, delizioso, nel suo gigantismo non ti facesse ripensare ai corpi enfiati e purulenti di Falluja, dopo l'attacco americano al fosforo bianco. Non molto lontano dal ristorante, sulle rive del Tigri, i ratti fanno festa dei resti del pesce, a ridosso dei murales che recintano i grandi alberghi, tra edifici incorniciati da una selva di fili elettrici, quinte teatrali di quartieri zoppi, devastati al punto giusto per non riuscire a mettere in piedi un altro spettacolo. 

Non solo i pesci, ma anche i topi del Tigri sono enormi. Qualcuno ha già spirato l'anima al suo dio minore di fronte ai murales dipinti in grigio con le glorie della Mesopotamia, il ventre squarciato dalla zampata di un gatto. 

Gli uomini ridono troppo, si arrabbiano troppo, si eccitano troppo. Le donne non sorridono, ma non perché qualcuno abbia insegnato loro che è meglio fare così. Non sorridono perchè non ne hanno più  motivo. Un paio ce lo dicono candidamente: non riesco a sentire più nulla, non mi importa di nulla. Per contro, i ventenni hanno accumulato tutte le energie rimaste in mezzo lustro di conflitti. "Non ho memoria della mia infanza, non ho fotografie - dice Taher - non so chi ero". Ma sa chi è adesso. Studia cinematografia e vuole fare un film in cui parla del  nulla che precede il suo sopravvivere qui. Il punto debole sono i soldi  per farlo, il governo latitante sui bisogni collettivi, le divisione settarie, il terrorismo. Taher viene da Sadr City, enclave sunnita di Baghdad. Il quartiere dei perdenti e dei resistenti, dipende dai punti di vista. E' orgoglioso di appartenere al clan dei Kweish ma non riesce ad accettare che gli rimanga solo l'orgoglio di essere iracheno, un giovane iracheno di Baghdad. 

In questo luogo, dove resta quel che resta di giardini e palme che supponi fossero meravigliosi e tutto è ricoperto da uno strato di polvere e sabbia che non nasconde la corruzione imperante, hai la percezione chiara che Baghdad non sia più una città. 

Baghdad è una morta vivente, uno zombie edilizio a cui si attaccano pezzi di vite umane nate e sopravvissute qui. Gli unici rimasti a farle il filo sono avanzi di galera stranieri in cerca di una seconda opportunità. Per il resto, è un buco nero che grida vendetta e vuole ottenerla ad ogni costo.

Gli Insorti

Gli insorti

A combattere il governo del presidente Hamid Karzai e la coalizione che lo sostiene è un arcipelago composito di insurgens. Si tratta, nei fatti, di un’alleanza formata da ex combattenti del Jihad antisovietico come lo Jamiat Jaishal Muslemeen (Jim, guidato da Maulwi Muhamad Ishaq Manzoora) e dallo Hizb-e-Islami di Gulbudin Hekmatyar, ex acerrimo rivale del “leone del Panshir” Ahmed Shah Massud, passato alla storia per aver difeso la sua vallata dall’occupazione delle truppe sovietiche. Ci sono poi i Taliban del Mullah Omar e diverse fazioni e gruppi che hanno come referenti Al-Qaeda. Infine, intorno a Kandahar, sono attivi ex comandanti mujihaidin autonomi come Sayyed Muhammad Akbar Agha.

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