il CNT

Libia Bengasi

Per una nuova “Libia libera” (questo lo slogan del Cnt) si prepara un percorso a tappe, che il governo provvisorio dei ribelli finora guidati da Mahmoud Jibril spera non sia ad ostacoli. Secondo la road map già annunciata nell’agosto scorso, l’obiettivo sono elezioni parlamentari e presidenziali entro 20 mesi, nel 2013. Per 8 mesi il Cnt guiderà la transizione, in attesa che un’assemblea eletta dal popolo prenda il comando del Paese per redigere una Costituzione. Poi, nel giro di un anno, saranno organizzate le elezioni. Per i primi quattro anni non si candideranno i membri dello stesso Cnt, almeno secondo quanto annunciato poco tempo fa a Parigi da Mahmud Shamman, responsabile per l’informazione.

Al-majlis al-watani al-intiqali (questo il nome del National Transitional Council, il consiglio di transizione nazionale libico, cioè il governo de facto della nuova Libia), è nato il 27 febbraio scorso a Bengasi e dal 5 marzo 2011 si è autodichiarato “l’unica organizzazione legittimata a  rappresentare il popolo e lo Stato libico”.  L’esecutivo, guidato da Mahmoud Jibril, è stato formato il 23 marzo e rimpastato il 23 ottobre, data in cui il presidente ad interim Mustafa Abdul Jalil (già ministro della giustizia in era Gheddafi) ha dichiarato la fine della guerra civile. Jibril, già confermato primo ministro, si è dimesso e  dal 31 ottobre gli è succeduto il professore di ingegneria elettrica con passaporto statunitense Abdurrahim El-Keib. Ali Tharhouni è vice-primo ministro, Jalal al-Digheily ministro della Difesa. I 33 membri del governo provvisorio nella fase iniziale, sono passati a 51 ma è stato proposto un aumento dei “parlamentari” fino a 75 o 125. Dei 51, fino a settembre si conoscevano i nomi solo di 40 persone. Tre membri del consiglio sono donne, tra cui la giurista bengasina Salwa Fawzi El-Deghali. Intanto, la nuova Libia rimane sotto il controllo della Nato, a cui il Cnt ha chiesto il prolungamento della missione “Unified Protector”. 

Cristiani

Idelfonse staziona fuori dalla Chiesa di San Francesco alla Dahra. È l’unico africano cristiano che accetta di parlare, la domenica mattina, prima della messa. Qui, nella Libia post-Gheddafi non si sbottonano in tanti, specie quando dall’altra parte del Mediterraneo arrivano notizie inquietanti sugli effetti della guerra verso i sub-sahariani. “Non so cosa vi vanno raccontando, ma per chi vive a Tripoli e lavora onestamente oggi è molto meglio di prima”. Idelfonse ha 51 anni. È emigrato dal Ruanda in guerra 20 anni fa. Ha quattro figli e uno è con lui, stamattina. “Lavoro da anni nel settore dell’energia. In Libia non mi sono mai trovato male e nessuno mi ha dato fastidio perché sono cristiano o di pelle nera. Di sicuro le persone si sentono più libere, adesso. Per me, comunque, l’importante è non perdere il lavoro”. Nathaniel, pakistano, si avvicina e annuisce. Cristiano anche lui ma protestante, fa il gioielliere. La moglie lavora in ospedale come infermiera. “Finora a Tripoli ho vissuto bene: da oggi in poi si vedrà ma per gli stranieri asiatici non penso ci saranno problemi”. Nathaniel, come altri protestanti, passa spesso dalla Chiesa di San Francesco, l’unica della capitale aperta al culto cattolico. “Il vescovo è un buon punto di riferimento per tutti”. Dentro, il vicario apostolico Giovanni Martinelli benedice chi gli si avvicina.

“Anche a me pare proprio che accada il contrario. Sugli africani, non c’è più il razzismo e l’accanimento dei tempi di Gheddafi che li strumentalizzava. Bisognerebbe comunque insistere per cancellare dall’immaginario collettivo l’equazione africano/mercenario e il nuovo governo dovrà adoprarsi con tutte le forze”. Questa rivoluzione, almeno qui a Tripoli, è stata un travaglio. Mica facile liberarsi del fantasma di Gheddafi dopo 40 anni di radicamento nel sistema, secondo Martinelli. “E c’era chi ci stava bene, anche materialmente”, dice.

Posto che il vescovo continua a condannare i bombardamenti già avvenuti, gli sembra che “questo liberarsi di Gheddafi sia equivalso a scrollarsi di dosso qualcosa che dà fastidio alla psicologia del libico”. Cosa? “Pregiudizi, realtà diseguali, modi di fare arroganti”. Come quelle che, dopo anni di silenzio, il quarantenne Mubaker, di passaggio nell’ufficio del vescovo, racconta: “Gheddafi non era un libico, era un uomo malato. Ma vi sembra giusto che in tutti questi anni di dittatura, se denunciavi una disfunzione in una struttura di servizio, come un ospedale, rischiavi di finire in prigione?” Però, il vescovo sostiene che se c’era una cosa buona, era questa: “Gheddafi, intorno alla fierezza beduina, è stato in grado di creare coesione sociale e ammirazione in altri Paesi musulmani, e nell’Unione africana. Ha lasciato un potere morale che ha trascinato e ha attirato tanti”. E il pericolo fondamentalista non c’è? In un Paese in cui i cattolici sono appena 50mila, quasi tutti stranieri, dove ci sono solo 13 sacerdoti e 70 religiose, pochi centri di assistenza sanitaria (14) e di culto, e dove non esiste una comunità cristiana indigena, “il dichiararsi musulmano, è un fattore di orgoglio identitario”, dice Martinelli. Che sottolinea: “Non c’è alcun pericolo per i cristiani, basta porsi sul piano dell’amicizia personale. Quel che cementa gli animi, in Libia, è il sentirsi parte di un clan, di una famiglia. Il che equivale alla condivisione di valori umani: il rispetto, la sincerità. Anche un cristiano può esser accettato in casa e nel cuore di un libico musulmano. Se lo è, nessuno baderà alla sua appartenenza religiosa. Se può servire dirlo, è capitato anche a me”.  

Misurata - la nuova Libia delle donne e dei giovani

Il dottor Ali fuma una sigaretta, prima di rientrare in corsia. «Tra poco ne arrivano degli altri, meglio fare pausa». Il giorno prima la cattura di Muammar Gheddafi, l’ospedale di Misurata era pieno come un uovo. I feriti, tra i combattenti, sono parecchi. Ventotto in medicina generale, 15 in ortopedia, altri dieci stazionano in rianimazione in condizioni disperate. «Amputare una gamba è il meglio che possa capitare in certi casi», precisa Ali. I più giovani e quelli con le ferite meno gravi hanno voglia di parlare, circondati dai parenti: mi chiamo Aladin, mi chiamo Hassam, mi chiamo Ahmad. Dall’uno all’altro, la litania è quella: combattevo a Sirte, stavo andando a Sirte, mi hanno ferito a Sirte. Poi, i parenti incitano il ragazzo a esporre la ferita davanti a qualsiasi obiettivo. Aladin, Hassam, Ahmad, ognuno con le loro storie e un padre o un fratello già morti al fronte e una madre o una sorella violentata a Misurata, hanno assolto al loro compito di combattenti, tornando martirizzati a metà: “Allahu akhbar”.

A Misurata, 210 chilometri a Est di Tripoli, in Tripolitania, questo è un giorno come tanti, dopo l’attacco delle truppe lealiste nel marzo scorso, conclusosi il 23 aprile. La città della tribù storicamente avversa a Gheddafi, la più ricca dopo la capitale, è ridotta a una gruviera. Tripoli street, la direttrice che porta in centro, fino alla Grande Moschea, alla piazza con la brutta copia del Big-Bang di Londra, passando per l’ex mercato – oggi un museo di armi, proiettili e bombe a mano a cielo aperto –  è una teoria di edifici bruciati, collassati come sandwich, sventrati dai tank, perforati da proiettili che non vagavano, ma puntavano dritto all’obiettivo. I suoi 400mila abitanti si sono dimezzati nell’arco di tre mesi; l’economia – trainata dall’acciaieria Lisco e dagli esercizi commerciali di alcuni uomini d’affari del posto – si è messa al servizio della rivoluzione dal 17 febbraio in poi, grazie anche all’aiuto dei bengasini e alla benedizione di Emirati e Qatar. Con uomini, mezzi, denaro, armi, cibo per i combattenti, rabbia. Fino al giorno della cattura di Gheddafi, quando tutti gli uomini rimasti sono tornati dal fronte per fare la fila e vedere il corpo del rais immobile sotto i flash dei telefonini.

Ma chi è rimasto in città, nel frattempo, non era stato a guardare, soprattutto le donne, soprattutto i giovani. Asma al-Mahjoob, Asma Eglewan, Hawa Wrfly, Hawa Eshween sono le fondatrici di Labiek Misrata, un’associazione no profit  che esisteva già prima, ma che ha avuto una svolta inaspettata con la rivoluzione. La al-Mahjob ci tiene a sottolineare: «Siamo tutte laureate e professioniste. Facevamo attività di integrazione alla cultura nei quartieri di Misurata e in città, da prima. Ma appena è scoppiato tutto ci siamo dette che non potevamo stare con le mani in mano: così abbiamo iniziato a raccogliere fondi per aiutare chi aveva perso la casa, e sostegni per chi andava al fronte: 120 dinari, cibo, acqua e sigarette per chi decideva di partire». Nella sede di Labiek, due giorni prima della rivoluzione, si continuavano a impacchettare cesti di dolci: il contributo  più apprezzato dai combattenti al fronte delle donne di Misurata. Asma Eglewan, che si è laureata in letteratura teatrale in Canada, è appena tornata da Sirte: «I nostri uomini quando vedono i dolci fatti in casa non capiscono più niente». Anche nella sede di “8 marzo: donne di Misurata per la rivoluzione”, ci si dà da fare senza sosta. C’è una cucina grandissima e dei piccoli furgoni bianchi che, fino al 23 ottobre, partivano alle due del pomeriggio per Sirte. Nei pentoloni, riso e uvetta passa, cosce di pollo e gli immancabili dolcetti fatti in casa. Nadja Dariz, misuratina di trent’anni, presidente dell’associazione, ha trasmesso l’argento vivo a queste donne che si affannano in cucina. «Sono quasi tutte vedove o non hanno in questo momento una protezione sociale, un uomo accanto». Come Hana che continua a sorridere: 20 anni, sordomuta, marito e padre morti al fronte. Nadja aggiunge: «Molte di loro sono traumatizzate dalla guerra o lo sono le loro figliole. Abbiamo approntato anche un sostegno psicologico. Qui, quando circolavano i cecchini a Misurata sono successe troppe cose». Lo sa bene anche Muna S., una dei ragazzi di Misurata che durante la rivoluzione hanno diffuso notizie e immagini sull’assedio e sui traumi della guerra: «Qui nessuna parla perché ha paura di non sposarsi più. Sta di fatto che, per adesso, a parte rivolgerci alla Mezzaluna Rossa, molte ragazze non sanno cosa fare».

Nuovi programmi di intervento e aiuto, attivi da qualche mese, saranno ampliati da alcune Ong internazionali presenti sul territorio come Acted, Merci Corps e l’italiana Cesvi. Ma la comunità locale ha intenzione di potenziare al massimo anche un’altra risorsa: al hurria, la libertà di espressione e di stampa. Nell’arco di pochi mesi sono nate una ventina di nuove testate. Una di queste, Alhurria, appunto, ha una redazione di professionisti. «Stampiamo anche a Tripoli e finalmente possiamo scrivere quel che ci pare, la censura ci tagliava la lingua», spiega il direttore Ahmed Abdussalam. Nessuna paura di essere utilizzati dal nuovo governo? I ragazzi di Ashaheed, 17 febbraio -  il canale YouTube e social che ha diffuso i video più cruenti dall’interno della città, durante il mese di assedio delle forze lealiste e adesso conteso dalle tv della nuova Libia - hanno le idee chiare. Jouma Sabti, un bel viso franco e aperto, è il leader del gruppo: «Io e i miei amici abbiamo fatto tanto per restare indipendenti. È vero, ci offrono soldi, ma abbiamo deciso di non cedere il nostro marchio a nessuno, almeno finché resistiamo. Piuttosto mettiamo all’asta le nostre foto più belle. A proposito, quanto volete per questo martire ritratto durante la battaglia?».

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