Cartoline da Baghdad 1, lo scemo del villaggio - Cartoline da Baghdad 1

Così, quando A. mi ha detto con enfasi “ci riprenderemo Baghdad”, ho capito in un battito di ciglia – le mie, perché non ci potevo credere – ciò che una cinquantina di articoli di geopolitica non riescono a spiegare. Vale a dire, perché migliaia di iracheni esultano all’idea dell’avanzata di Daesh/Isil. “Ci riprenderemo Baghdad, Baghdad è nostra”. Me l’ha ripetuto un’altra volta e ho ringraziato Dio per il fatto che il suo è ancora l’idealismo di chi si siede su un divano e gioca alla playstation, e dunque è tendenzialmente innocuo.

 


Ma chissà cosa farebbe A. se potesse partire, chissà se partirebbe per riconquistare la sua Baghdad, che gli è stata tolta dall’infanzia e dove suo padre non può mettere più piede. Chissà, se sapesse oleare un kalashnikov che suo padre non gli ha mai dato in mano perché è un uomo di pace. Quelli come lui, con più mobilità di lui, più grandi di lui e con la soglia di ragionevolezza abbassata, piuttosto che tifare come in una partita di calcio, preferirebbero essere i calciatori. Combattenti, armati, eroi per un sogno di riconquista fino alla morte, per riscattare gli orrori che hanno subito i padri, per ridare una casa sulla terra a un fantasma del passato.

 


Non è la prima volta che sento questa frase. “Ci riprenderemo Baghdad” ha echeggiato nella mia mente per qualche secondo, poi l’ho rivista sul labiale di un cinquantenne ossuto e pazzo che deambulava per strada al mattino delle ultime elezioni. In shara Baghdad c’era solo lui, mezzo nudo, alle 6.30 del mattino, e gridava. Gridava “maledetto al-Maliki, maledetti americani, maledetti tutti che ancora andate a votare, poveri scemi”. Apostrofò anche me, sputandomi quasi in faccia, pensando che fossi irachena, pensando che andassi a votare.

 


Lo incontrai di nuovo al ritorno dalla giornata elettorale alle ore 3 del pomeriggio. Stessa strada, stessi portici. Teneva le mani alzate e un soldato delle forze speciali, armato fino ai denti e imbottito come un palombaro, premeva il fucile automatico sulla sua tempia destra. Intorno, una decina di persone stavano a guardare. L’ufficiale intimava all’uomo che “basta, non ti permettere, statti zitto, non parlare più”. Era una scena di violenza rappresa, sospesa. Non un rumore intorno, nella Baghdad deserta di quel giorno eccezionale. Solo quei due nel cono d’ombra dei portici che si sfidavano ad armi impari e un pubblico che non ha bisogno di pagare per godere di questi spettacoli. Da un lato la forza goffa, dall’altro l’allerta della follia. Di fronte il sonno della ragione. Forse per questo nessuno intorno intercedeva, tentava di sottolineare che quello era solo un pazzo, uno dei tanti che lo son diventati clinicamente dopo un conflitto di dieci anni e una vita successiva di stenti e paure. La canna era sempre ben poggiata sulle sue tempie mentre lui, il “pazzo”, sibilava “Stai attento, ci riprenderemo Baghdad”.

 


Chissà se quell’uomo era veramente pazzo, uno scemo del villaggio qualunque; chissà se, invece, non era la coscienza collettiva di quei dieci che si godevano la scena e di tutti gli altri, dispersi per il mondo, che sognano ancora le rose nel giardino di Karrada, una bandiera a tre strisce orizzontali, rossa, nera e bianca, senza alcuna scritta color verde sciita in mezzo, e che sono arrivati a sostenere la mafia islamica e criminale di Isis per liberarsi di un’altra che ha il colletto bianco, il turbante degli ayatollah e il portafogli a stelle e strisce. 

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