Cose da Babilonia 1

 

 

baghdad

Siamo a Baghdad da tre giorni e non abbiamo più dubbi: le società che rinascono dopo la guerra sono le più assurde e pericolose ma anche le più energetiche. 

Perchè in quel misto di dust&dark, di polvere e buio assoluto, camminando alle dieci di sera nella Zona Rossa, non molto lontano dall'hotel Palestine, dove nel 2003 i colleghi documentavano la guerra godendosi i bombardamenti dal quindicesimo piano, ci si sente impastati di destino e volontà, in una specie disfacimento creativo da viaggiatori masochisti. 

Cosi puoi trovarti con i pantaloni di seta impigliati nel filo spinato del ceck point dopo una cena con un quasi ministro sulle rive del Tigri, mentre le auto ti strombazzano alle spalle e l'uomo della sicurezza che te le deve guardare sta amabilmente discutendo di bamja e divisioni settarie camminando in avanti. Tu sei lì con la pancia piena, dopo avere apprezzato il pesce del luogo, arrostito sul fuoco da una decina di ragazzotti, in un ristorante che ha l'aspetto della mensa della protezione civile dell'Aquila dopo il terremoto, visto che gli avventori vengono stipati in una serie di container attaccati l'uno all'altro. 

La cena potrebbe anche essere gradevole se quel pesce  tondo, grasso, delizioso, nel suo gigantismo non ti facesse ripensare ai corpi enfiati e purulenti di Falluja, dopo l'attacco americano al fosforo bianco. Non molto lontano dal ristorante, sulle rive del Tigri, i ratti fanno festa dei resti del pesce, a ridosso dei murales che recintano i grandi alberghi, tra edifici incorniciati da una selva di fili elettrici, quinte teatrali di quartieri zoppi, devastati al punto giusto per non riuscire a mettere in piedi un altro spettacolo. 

Non solo i pesci, ma anche i topi del Tigri sono enormi. Qualcuno ha già spirato l'anima al suo dio minore di fronte ai murales dipinti in grigio con le glorie della Mesopotamia, il ventre squarciato dalla zampata di un gatto. 

Gli uomini ridono troppo, si arrabbiano troppo, si eccitano troppo. Le donne non sorridono, ma non perché qualcuno abbia insegnato loro che è meglio fare così. Non sorridono perchè non ne hanno più  motivo. Un paio ce lo dicono candidamente: non riesco a sentire più nulla, non mi importa di nulla. Per contro, i ventenni hanno accumulato tutte le energie rimaste in mezzo lustro di conflitti. "Non ho memoria della mia infanza, non ho fotografie - dice Taher - non so chi ero". Ma sa chi è adesso. Studia cinematografia e vuole fare un film in cui parla del  nulla che precede il suo sopravvivere qui. Il punto debole sono i soldi  per farlo, il governo latitante sui bisogni collettivi, le divisione settarie, il terrorismo. Taher viene da Sadr City, enclave sunnita di Baghdad. Il quartiere dei perdenti e dei resistenti, dipende dai punti di vista. E' orgoglioso di appartenere al clan dei Kweish ma non riesce ad accettare che gli rimanga solo l'orgoglio di essere iracheno, un giovane iracheno di Baghdad. 

In questo luogo, dove resta quel che resta di giardini e palme che supponi fossero meravigliosi e tutto è ricoperto da uno strato di polvere e sabbia che non nasconde la corruzione imperante, hai la percezione chiara che Baghdad non sia più una città. 

Baghdad è una morta vivente, uno zombie edilizio a cui si attaccano pezzi di vite umane nate e sopravvissute qui. Gli unici rimasti a farle il filo sono avanzi di galera stranieri in cerca di una seconda opportunità. Per il resto, è un buco nero che grida vendetta e vuole ottenerla ad ogni costo.

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