La "Pax Italiana" passa a Nordovest

trincea

 

SHINDAND (HERAT) – Il capo di tutti i villaggi della zona di Shawz, tra la base avanzata di Shindand e la Zeerko Valley, a più di 100 chilometri da Herat, incontra da giorni la delegazione italiana del Regional Command West.

Aka Fasul Ahmad e il capitano Luca Bordoni prendono il tè per l’ennesima shura vicino ad un ceck point della polizia afgana. Le parole ricorrenti sono sicurezza, lavoro, infrastrutture, istruzione, accompagnate da cenni del capo e promesse reciproche di collaborazione.

Qui si arriva attraverso l’unica autostrada afgana, la Highway Road One: un percorso nel deserto di pietre e sabbia, poche casupole ai margini della strada, un solo villaggio più grande con un mercato, Aziz Abad, un solo distributore di benzina. Aka Fasul Ahmad ha chiesto un pozzo e i lavori hanno avuto il via due settimane fa, dopo l’accordo con le ditte locali e l’assunzione dei lavoratori del villaggio. Adesso ribadisce: «Gli italiani ci devono aiutare: abbiamo bisogno di sicurezza per noi e per la polizia afgana contro gli insorgenti che non vorrebbero stessimo a fianco del governo e delle Forze di coalizione. Ditelo al vostro presidente del Consiglio: i vostri soldati devono restare qui ».

La richiesta di questo elder afgano suonerebbe fuori contesto, se non fosse che ciò che accade in questo Paese incide da trent’anni sulla storia degli equilibri internazionali. Mentre la Nato, dopo la riunione dei ministri della Difesa dell’Alleanza Atlantica a Bruxelles, il 10 giugno scorso, sta valutando come dare seguito alla exit strategy annunciata da Obama, e fa i conti con un deficit di 640 milioni di dollari, i militari dell’Isaf si trovano tutti i giorni a combattere con gli Ied (Improvised Esplosive Disposal), le bombe fatte in casa dagli “insorti”, con materiali di fortuna come fertilizzante e gasolio, e poi nascoste sotto la strada, attivate a distanza, o da un piatto a pressione.

Le ultime sono esplose proprio a Shindand, una nel deserto all’ingresso della Zeerko Valley, a 12 chilometri dalla base italiana: per i cinque alpini sul blindato Lince ci sono state solo ferite leggere. L’altra è stata trovata sulla Highway One, sul ciglio della strada, dentro a un tombino in cemento per la canalizzazione dell’acqua. «Siamo stati allertati dalla polizia locale, – racconta il tenente del 32esimo reggimento genio guastatori Stefano Zonzin –. Era un ordigno con 50kg di esplosivo di media potenza, forse radiocomandato. Se fosse scoppiato avrebbe avuto un effetto cannone sulle condutture dell’acqua». Questa, a Shindand, e in tutto il settore Ovest del Paese, è normale amministrazione.

Dal 20 maggio a oggi sono 42 gli Ied rivenuti vicino alle basi italiane: 12 a Bala Murghab, 4 a Shindand, 26 a Sud, nella zona di Farah. E a questo conteggio vanno aggiunti anche gli incidenti durante i pattugliamenti, come quello che ha portato alla morte del caporal maggiore Francesco Saverio Positano.

Il colonnello Giulio Lucia comanda la Task Force Center di Shindand: «La nostra area di competenza, passando per la valle di Pharsi, si estende fino alla Zeerko Valley, una zona che fino a un anno fa era considerata off limits per noi, perché terra di insorti. Le minacce per popolazioni e polizia afgana locale vengono soprattutto da qui».

La Zeerko Valley, in un territorio che, da Shindand in giù, conta più di 269mila abitanti, di cui il 75% di etnia pashtun, il 15% tagika e il restante 10% turkmena e kucha, è il regno di due tribù, i Nurzai e gli Achakzai, che hanno interessi locali comuni nella coltivazione dell’oppio ma interessi politici opposti.

«Anche nella valle di Pharsi – rivela il comandante Lucia – assistiamo agli assalti da parte di insorgenti a interi villaggi». È il caso della piccola realtà di Chahak, 250 anime e qualche capra in più su una strada sterrata denominata Teitan. Cher Ahmad, il capovillaggio, chiede assistenza per greggi e bambini, si dichiara “antitalebano e democratico”, denuncia episodi di violenza e furti nella notte. «Nel villaggio di Nagal, che si trova oltre un passo di montagna visibile a occhio nudo – il  comandante Lucia ci indica la località –, sono state segnalate presenze di uomini armati di notte».

Ma la trincea vera, in Afghanistan, è a Bala Murghab, Nord-Ovest, 230 chilometri da Herat, dove un mese fa sono morti il sergente maggiore Massimiliano Ramadù e il primo caporal maggiore Luigi Pascazio. La zona è di massimo interesse per Isaf che desidera allargare il controllo per arrivare a completare la Ring Road, una strada asfaltata a scorrimento veloce che dovrà collegare tutte le più importanti città afgane, formando un anello di viabilità. Il passaggio attraverso i villaggi è più difficile che altrove: la presenza dei soldati è salutata con una muta indifferenza e non si scende dai blindati.

La base avanzata è un avamposto di sabbia e sacchi, temperature altissime, con una media di 47 gradi all’ombra. Qui si smina, si pattuglia, si scavano trincee con pala e piccone, si risponde al fuoco nemico. Il colonnello Massimo Biagini, che comanda il secondo reggimento alpini di Cuneo, ci porta sul caposaldo “Cavour”: «Siamo ancora in una fase di “pulizia”. Abbiamo costruito dei capisaldi, insieme alle forze afgane e americane, e da lì rispondiamo al fuoco degli insorti, cercando di allargarci a Nord».

Questa è una zona di resistenza, dove la vicinanza con l’Iran accende l’interesse dei gruppi antigovernativi. La vita di trincea è spartana ma il caporal maggiore scelto Mirella Labriola, che comanda la sua squadra al Cavour, ci confessa: «Ciò che rende veramente difficile il nostro lavoro qui è l’imprevedibilità».

Dal 20 maggio ad oggi, quasi tutti gli episodi di attacchi con armi leggere e pesanti nel settore Ovest si sono verificati in questa zona, dove si può arrivare solo in elicottero. In tutto, gli attacchi sono stati 37 in meno di un mese e a 15 è stato risposto con i mortai. Ma in questi giorni è stata osservata una tregua da ambo le parti: a Bala-Murghab si raccoglie il grano e tutto tace. 

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